Il 7 aprile 1994 le strade di Kigali si riempirono di sangue mentre gli altoparlanti gracchiavano la propaganda anti-tutsi di Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM): "È arrivato il momento! Tagliate gli alberi alti. Schiacciate quegli scarafaggi!". Scarafaggi era il nome sprezzante dato ai tutsi. Cominciò un'autentica caccia all'uomo, attuata dalle milizie Hutu, note come Interahamwe, l'ala giovanile del partito al potere, il Movimento Repubblicano Nazionale per la Democrazia e lo Sviluppo (Mrnd). Le violenze colpirono anche gli Hutu moderati che provarono a opporsi alla strage. Il tutto sotto gli occhi indifferenti della comunità internazionale: nessuno o quasi chiese un intervento, tranne il generale canadese Rome'o Dallaire, a capo della Missione Onu in Ruanda (Unamir), che sollecitò invano un raddoppio dei circa 2700 caschi blu dispiegati nel Paese per impedire la tragedia.
Una strage davanti agli occhi del mondo
Le Nazioni Unite ritirarono quasi tutto il loro contingente, mantenendo solo 300 uomini. Totalmente assenti dallo scenario gli Stati Uniti, che si erano appena ritirati da un'operazione fallimentare in Somalia e non avevano alcuna intenzione di impantanarsi in un altro conflitto africano. Il Belgio, ex potenza coloniale del Ruanda, si limitò a evacuare i propri cittadini. Parigi ebbe un ruolo controverso nel genocidio, ancora oggi oggetto di inchieste: la Francia fu accusata di non aver fermato il massacro. Il rapporto Muse, pubblicato nel 2017, ha rivelato che funzionari francesi fornirono protezione presso l'ambasciata a Kigali a responsabili del governo ad interim, al potere in Ruanda durante le uccisioni di massa. Proprio in questi giorni il presidente francese, Emmanuel Macron, ha nominato un panel di esperti per indagare sulle azioni della Francia. La commissione di otto ricercatori e storici "sarà incaricata di consultare tutti gli archivi della Francia legati al genocidio", "per analizzare il ruolo e l'impegno della Francia durante quel periodo".
Sotto mandato delle Nazioni Unite, infine la Francia condusse l'operazione "Turquoise" - dal 23 giugno 1994 al 21 agosto - per cercare di porre un freno alle violenze. All'operazione parteciparono 2500 soldati francesi e un contingente di truppe africane, troppo pochi per fermare i massacri. Nel sud-ovest del Paese venne creata una zona rifugio sicura per le migliaia di sfollati, la "zona Turquoise", ma non bastò. Sfavorevole fu anche il momento storico: in quei mesi i media si focalizzavano sul'intervento Usa in Somalia, la fine dell'apartheid in Sudafrica e la guerra nei Balcani.
La mattanza si concluse a metà luglio 1994, quando l'esercito comandato dall'attuale presidente del Ruanda, il Tutsi Paul Kagame, penetrato dal vicino Uganda, conquistò Kigali facendo cadere il governo ad interim. La vittoria dell'Fpr sulle forze governative portò all'esodo di circa di 2 milioni di Hutu nei Paesi limitrofi mentre in patria rientrarono i Tutsi esiliati anni prima.
Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (Ictr - International Criminal Tribunal for Rwanda) istituito nel novembre 1994, con sede ad Arusha, ha processato i "pesci grossi", ma soltanto una settantina, in oltre 20 anni di attività. In patria i "Gacaca", le corte popolari processarono invece migliaia di assassini, in parte già tornati liberi.
A 25 anni di distanza non è ancora emersa tutta la verità, a cominciare dall'attentato all'aereo presidenziale, la cui responsabilità potrebbe essere dell'ala più estremista degli hutu o dei tutsi dell'Fpr di Kagame. I crimini commessi da questi ultimi sono ancora un tabù pertanto la giustizia locale è stata spesso unilaterale e parziale. Inoltre non si ha alcun bilancio ufficiale sulle vittime Hutu della successiva repressione attuata dall'Fpr, in particolare nel 1996-97 nel confinante Congo.
In occasione del decennale del genocidio è arrivato il 'mea culpa' dell'Onu. "La comunità internazionale ha abbandonato il Ruanda alla sua sorte e questo ci lascerà per sempre i più amari rimpianti e la più profonda tristezza. Se avesse reagito velocemente e con determinazione, avrebbe potuto impedire la maggior parte dei massacri. Ma la volontà politica era assente. Anche le truppe lo erano" ha dichiarato il 7 aprile 2004 l'allora segretario generale, Kofi Annan.
Il Ruanda 25 anni dopo
È passato un quarto di secolo e in Ruanda le ferite sono ancora aperte. Non c'è famiglia che non abbia avuto un morto in casa, ma molte cose sono cambiate: il reddito pro capite che nel 1995 era di 125 dollari, ora è passato a oltre 800 e il PIL dovrebbe superare i 10.20 miliardi nel 2020. Un'ascesa favorita anche dagli aiuti di una comunità internazionale che sentiva di dovere qualcosa per la sua inerzia durante il genocidio.Vietando ogni riferimento all'appartenenza etnica nella vita pubblica e facendo della giustizia dei responsabili del genocidio una priorità, con l'aiuto di tribunali popolari, le autorità sono riuscite a far coesistere pacificamente vittime e carnefici. Senza contare che una maggioranza di ruandesi, 7 milioni su 12, non era nata all'epoca del genocidio.
Così nei "7 villaggi di riconciliazione" i figli delle vittime giocano con quelli degli assassini. Qui vivono quelli che sono stati rilasciati dal carcere dopo aver pubblicamente chiesto scusa per i loro crimini. Vivono fianco a fianco con i sopravvissuti al genocidio che li hanno perdonati. La parola chiave è "Umuganda" e sintetizza la cultura del "lavorare insieme" alla ricostruzione, professata dal governo del presidente Kagame. Ogni cittadino ruandese in salute e ottime condizioni fisiche tra i 18 e 65 anni, deve lavorare nella risoluzione di progetti comunitari per almeno tre ore al mese. È compito dell'intera comunità identificare i lavori di carattere pubblico per ogni mese. Questi lavori obbligatori fanno parte di un più vasto progetto del governo, il quale punta a riconciliare le due culture nel paese.
100 giorni di lutto
Per i sopravvissuti la commemorazione del genocidio è una dura prova, che fa riaffiorare le immagini delle uccisioni. Non tutte le ferite sono cicatrizzate. Inoltre, secondo i numerosi critici del regime, l'apparente consenso sociale è solo il risultato dell'autoritarismo di Kagame: rispettato in Africa, il presidente ruandese è accusato in Occidente di calpestare la libertà d'espressione e mettere a tacere ogni opposizione.
L'anniversario sarà celebrato con una cerimonia a Kigali: di mattina il presidente Kagame accenderà una fiamma in ricordo delle vittime al memoriale di Gisozi accompagnato da diversi dignitari, soprattutto africani; poi di pomeriggio pronuncerà un discorso allo stadio Amahoro. La giornata aprirà una settimana di iniziative di commemorazione e inaugurerà 100 giorni di lutto nazionale che si concluderanno proprio il 4 luglio. -
Fonte: http://www.rainews.it/dl/rainews/media/25-anni-dopo-il-genocidio-in-Ruanda-100-giorni-di-lutto-per-ricordare-le-vittime-del-massacro-433e2917-7bb9-48b3-a392-aa43e335d17e.html