La Risoluzione non comporta “rischi” o impegni eccessivi per nessuna delle parti, né per il regime né per quei paesi che vi si oppongono politicamente. Essa prescrive sì la progressiva distruzione delle armi chimiche in mano alle forze lealiste ma, in caso di violazione, non è prevista alcuna sanzione automatica, così come è contemplato un intervento militare coercitivo al fine di farne rispettare le direttive giacché la Risoluzione non rientra nella disciplina del Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite (capitolo che autorizza l'uso della forza come ultima ratio). In caso di violazione, si dovrebbe inevitabilmente attendere una nuova interminabile serie di negoziati, con la speranza che questi possano portare ad una contromossa concreta da parte dei paesi “spettatori” del conflitto in corso. Come si può constatare, suddetta Risoluzione non costituisce quindi una minaccia per il regime, e non costituisce un vincolo per gli altri membri della comunità internazionale. Questo fa capire quanto poco profonde siano le radici su cui essa si poggia.
È chiaro quindi che non sarà certo questo documento a portare alla fine della guerra civile. Ciò non significa che la Risoluzione non raggiungerà il proprio obiettivo, ma lo smantellamento di un arsenale chimico non implica un cessate il fuoco, non implica l'esaurirsi del conflitto. Ban ki-Moon l'ha definito un «voto storico», e forse lo è stato davvero; tuttavia, mentre negli ultimi mesi l'attenzione politica e mediatica è rimasta concentrata sulla problematica delle armi chimiche, in Siria i fucili hanno continuato a sparare, le bombe ad esplodere e la conta dei morti a salire.
© Riproduzione Riservata