Per tale ragione, i controlli sui prezzi vennero eliminati, gli stipendi pubblici furono bloccati, il commercio venne liberalizzato e si permise al cambio della moneta nazionale di fluttuare liberamente.
Furono certamente riforme radicali e difficili da digerire e, almeno all’inizio, portarono ad una vera e propria esplosione della disoccupazione, nonché al drastico crollo del PIL nazionale, sceso di ben nove punti percentuali nel solo 1991.
Eppure, queste furono riforme che, nel lungo periodo, non tardarono a dare i loro frutti: da allora, infatti, la popolazione a rischio povertà è passata dal 45% al 26%, la disoccupazione è stabile al 7%, mentre il tasso di crescita annuo, contrattosi del 4.5% in tutta l’Eurozona, è salito, nel 2009, all’1.6%.
A questi dati, poi, si aggiunga anche quello di una pressione fiscale meno asfissiante rispetto agli altri stati del quadrante europeo, cosa che ha portato alla creazione di manodopera altamente specializzata e al successivo impiego di giovani polacchi nelle numerose multinazionali d’alto profilo venute ad investire sul territorio, nonché il vantaggio di avere un sistema di imposta sul valore aggiunto di tipo variabile, basso sui beni di prima necessità e alto per quanto riguarda i beni di lusso (il costo dell’alcool, ad esempio, risente proprio di un’IVA al 23%), per capire le ragioni dell’improvviso successo economico della Polonia.
Un successo, tra l’altro, che molti meriti deve, come già detto in precedenza, all’abilità dei suoi governanti, primo fra tutti l’attuale premier Donald Tusk, già eletto una prima volta nel 2007, poi riconfermato nel 2011, il quale, per colmare il vuoto lasciato dai mercati europei e americani, colpiti in quegli anni da una grave crisi economica, ha indirizzato la sua azione di governo verso lo sviluppo del mercato interno, cresciuto da allora di ben 2 punti percentuali; ad oggi, il motore economico del paese è quello legato alla piccola e media impresa, nonché quello legato al settore dell’export, forte di una manodopera a basso costo che ne avvantaggia le potenzialità competitive.
La produzione, dunque, è tutta incentrata sul ruolo delle famiglie polacche all’interno del contesto nazionale, elemento, questo, che fra i molti meriti, ha avuto quello di aver dato vita ad un sistema economico meno dipendente dai capitali internazionali, motivo per cui il paese ben ha resistito ai dissesti finanziari degli ultimi cinque anni.
Proprio grazie alla resistenza del sistema economico nazionale, Varsavia è stata in grado di mettere in campo nuove risorse per attrarre ulteriormente gli investitori stranieri, primi fra tutti quelli italiani; negli scorsi anni, ad esempio, è stato sviluppato, in occasione del Workshop italo-polacco svoltosi a Roma, fra l’allora vice ministro dell’Economia polacco, Adam Szejnfeld, ed il suo omologo italiano, Adolfo Urso, un piano di investimento per un nuovo partenariato fra pubblico e privato, con particolare predilezione per il settore energetico, nel campo delle energie rinnovabili.
Sempre Szejnfeld, nel corso del medesimo incontro, ha inoltre ricordato quanto importante sia l’Italia per l’economia polacca, con le sue 1000 imprese attive sul territorio, fra cui Unicredit (che ha recentemente rilevato la Banca Pekao SA, il secondo istituto bancario del paese), Ferrero, Fiat (la produzione della 500, infatti, è stata interamente trasferita a Tychy, in Slesia) e Indesit.
Eppure, come già qualcuno ebbe modo di dire molto tempo fa, «non è tutto oro ciò che luccica».
Il successo polacco è merito sì di oculate scelte politiche, ma anche di cospicui aiuti economici che, da Bruxelles, hanno riempito le casse di Varsavia: fra il 2007 e il 2013, infatti, la Polonia si è configurata come il più grande beneficiario di fondi europei, ricevendo complessivamente più di 100 miliardi di euro, utilizzati per la costruzione di strade, autostrade, porti, aeroporti e grandi infrastrutture (senza, a queste cifre, voler aggiungere i fondi arrivati per l’organizzazione del Campionato Europeo di calcio 2012, allestito insieme alla vicina Ucraina).
Lo stesso Tusk, secondo recenti sondaggi condotti dal The Economist, poi, ha visto crollare la sua popolarità dal 40% al 22%, molto probabilmente a causa del rallentamento della crescita economica nazionale, un problema che, in un paese che ancora si classifica fra i più poveri dell’Unione, rappresenta di certo un tema molto sentito.
Secondo le stime del Financial Times , infatti, nel primo trimestre del 2013, l’economia polacca è cresciuta solo dello 0.5%, facendo più volte temere un suo improvviso arresto.
A creare ulteriori timori, poi, lo stato delle finanze pubbliche: il debito pubblico polacco è ormai prossimo al 55% del PIL, mentre il deficit (quando l’ammontare di denaro speso è superiore al quantitativo di denaro incassato) si appresta a raggiungere quota 4.2% (un buon risultato, se si conta che nel 2009 esso era a quota 7.4%), troppo per gli standard europei.
Nonostante questo, però, il sistema economico polacco sembra stabile e non sembrano esservi i presupposti per una sua contrazione; anzi, la crescita per il 2014 è attesa al 2.5%, malgrado la banca centrale polacca continui a praticare una politica monetaria con tassi molto alti, al 2.5%, per contenere l’inflazione.
Più preoccupante è lo scenario politico interno: qualora Tusk non dovesse recuperare quanto perso in questi ultimi tempi, le elezioni politiche del 2015 potrebbero giocare un brutto scherzo alla sua Piattaforma Civica (Platforma Obywatelska), specie se considerata la rapida ascesa di Diritto E Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość) formazione politica di destra, conservatrice ed euroscettica, stabile al 31% dei consensi, che molto avrà da dire alle prossime elezioni europee.
In quel caso, allora, si potrebbe assistere ad un nuovo stravolgimento geopolitico.
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