L’accordo è riassumibile in cinque punti:
- L’Iran dovrà interrompere l’arricchimento di uranio al di sopra del 5 per cento e ridurre le sue riserve di uranio arricchito oltre questa percentuale;
- Teheran dovrà autorizzare l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) a ispezionare gli impianti nucleari di Natanz e Fordow
- Non ci sarà nessun ampliamento dell’impianto di Arak;
- L’Iran riceverà anche un alleggerimento delle sanzioni per circa 7 miliardi di dollari.
- Le due facility di Natanz e Fordow sono state inserite nei termini dell’accordo perché rappresentavano proprio la dimensione militare del programma nucleare iraniano.
Nella facility di Fordow, realizzata dentro una montagna e perciò tra le più protette infrastrutture nucleari iraniane, si stava arricchendo materiale fissile al 20%, grazie alla nuova generazione di centrifughe molto più rapide ed efficienti in fibra di carbonio. La tecnologia impiegata per l’arricchimento non dava sufficienti giustificazioni per scopi squisitamente civili.
L’introduzione di centrifughe di seconda generazione, sia a Fordow che nell’infrastruttura sotterranea di Natanz, avrebbe reso Teheran in grado di generare uranio arricchito in misura oltremodo veloce (all’incirca tre volte rispetto al momento attuale).
Il complesso di Natanz[1], situato a 200 miglia a sud di Teheran (tra Esfahan e Kashan nell’Iran centrale) è stato costruito quasi interamente sotto terra[2]. Vi sono state assemblate 160 macchine per la centrifugazione gassosa di tecnologia pakistana, il che avrebbe consentito di produrre uranio arricchito per un reattore nucleare di 1000 megawatt e di assemblare tre armi nucleari l’anno.
La deadline per l’atomica iraniana era già in atto, dunque, Teheran era già prossima ad ottenere 70 kg di uranio arricchito al 20% (1/6 dell’uranio altamente arricchito necessario per poter assemblare un’arma nucleare). Nella facility di Natanz, sarebbero state sufficienti 1/3 delle 3000 centrifughe di nuova generazione, in aggiunta ai 9000 dispositivi già operativi, a produrre uranio arricchito con percentuali maggiori del 20%.
Nessun problema, invece, per il reperimento del combustibile nucleare, secondo analisi dell’Organizzazione iraniana dell'Energia Atomica già da inizio 2014 Teheran avrebbe potuto contare sul c.d. uranio yellowcake grazie all’uranio compatto e minerale di Bandar Abbas e di Yazd e sulla Centrale di Isfahan.
Nella strategia politica iraniana del precedente Presidente, Ahmadinejad, il nucleare rappresentava contemporaneamente un diritto e una necessità. L’estrema instabilità geopolitica ed economica dello scacchiere mediorientale induceva Teheran a ritenere di poter incidere maggiormente sugli squilibri dell’area contando su mezzi militarmente persuasivi per dispiegare le sue interferenze negli altri Paesi e minacciare Israele. Il sogno egemonico di Ahmadinejad non disponeva ancora, per quanto i dissensi e i contrasti interni venivano repressi con violenza e sistematicità, degli anticorpi necessari per il salto di qualità. D’altronde, le pesanti congiunture economiche non avevano risparmiato l’Iran che si trovava nella complicata situazione di dover coniugare le difficoltà economiche interne con l’esigenza di dare corso effettivo alla minaccia nucleare.
Le misure di contenimento adottate dalla Comunità Internazionale sono sicuramente servite ad incrementare la pressione interna e a favorire il mutamento complessivo della strategia della Repubblica Islamica, costringendola, anche in questo caso, ad intavolare trattative di natura diplomatica, poi sfociate nell’intesa di Ginevra che prevede, come già detto, un alleggerimento delle sanzioni economiche in cambio del congelamento del programma nucleare.
Le misure sinora adottate dalla Comunità Internazionale e dalla stessa Unione Europea sull’embargo petrolifero sono state poco incisive.
I Paesi dell'U.E. si erano accordati sull'embargo petrolifero all'Iran, sterilizzando i rapporti con la Banca Centrale, al fine di complicare, se non di rendere impossibili, i pagamenti da parte di soggetti iraniani dei prodotti acquistati da aziende europee.
Le misure prevedevano anche il divieto di investire nell'industria petrochimica e di coniare monete e banconote per conto della Banca centrale iraniana. Le sanzioni, adottate subito dopo il congelamento dei beni di 433 società iraniane e 113 persone, hanno imposto pesanti limitazioni alle esportazioni di molti prodotti sensibili e vietato gli investimenti nel settore degli idrocarburi.
L’embargo, nondimeno, si è poi rivelato un boomerang per i Paesi attualmente più fragili dell'Eurozona: l’UE importa circa 500mila barili al giorno dall’Iran, che è il più importante fornitore di petrolio per la Grecia. L’ulteriore inefficacia delle sanzioni era dovuta anche dal fatto che Teheran poteva acquistare beni e servizi da altri Paesi non coinvolti nell’embargo. In testa, Russia e Cina.
L’efficacia delle ispezioni internazionali potrebbe rivelarsi risolutiva solo ove l’Iran sottoscrivesse anche il Protocollo Addizionale legato agli accordi di salvaguardia del Trattato di Non Proliferazione. Diversamente, senza la piena e costante collaborazione della Repubblica Islamica, l’attività ispettiva dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica è destituita di qualunque funzione e autorevolezza, come si è verificato per la facility di Qom, la cui costruzione è stata avviata nel maggio del 2005, quando l’Iran era comunque obbligato a notificare all’IAEA “as soon as the decision to construct, to authorize construction or to modify has been taken”.
Teheran ha confermato la costruzione dell’infrastruttura anni dopo la realizzazione dei primi tunnel sotterranei, limitando fortemente l’attività di verifica internazionale e uscendo allo scoperto soltanto dopo che era stata scoperta l’esistenza della facility.
La necessità di un’intesa sul nucleare iraniano era dovuta anche perché, diversamente, l’ambizione di Teheran avrebbe potuto orientare i Paesi dell’area a riequilibrare le capacità militari, sostenendo un riarmo che avrebbe creato le premesse per una guerra fredda nel Medio Oriente.
Certamente il ricorso a soluzioni militari, con un attacco militare preventivo limitato alle sole infrastrutture coinvolte nel programma nucleare iraniano era, secondo i suoi fautori, essenziale perché le soluzioni alternative (sanzioni economiche, ispezioni internazionali, negoziati diplomatici, etc.) avrebbero contribuito a rallentare la realizzazione del programma atomico iraniano, ma non la sua cessazione definitiva; l’imminenza della minaccia atomica avrebbe giustificato l’autodifesa.
L’accordo di Ginevra, congiuntamente alla prima comunicazione diretta tra i presidenti di Stati Uniti e Iran dal 1979, rompendo un silenzio diplomatico che si protraeva dalla rottura delle relazioni bilaterali tra i due Paesi, ha riammesso, ufficialmente, Teheran nella Comunità Internazionale. L’Iran è ancora il primo sostenitore politico del regime di Assad in Siria grazie alle milizie sciite Hezbollah ed in misura minore ad Hamas, senza Teheran Bashar al-Assad forse non sarebbe più al potere. Per i prossimi sei mesi Teheran sarà anche al riparo da possibili blitz militari israeliani sulle sue facility militari, la sua influenza nell’area non potrà che aumentare in maniera rilevante.
L’auspicio è che in questi sei mesi Teheran firmi il Protocollo Addizionale al Trattato di Non Proliferazione, che consente ispezioni e controlli molto stringenti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, rendendo così permanenti gli effetti di un’intesa che è sicuramente positiva ma che non è ancora abbastanza per rendere credibile l’intenzione iraniana di sviluppare un programma nucleare con scopi esclusivamente civili.