2. Iraq – Il Califfato Islamico che spaventa Baghdad
L’attuale crisi irachena ha trascinato, con forza, l’attenzione mondiale in Medio Oriente. L’offensiva dell’ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, noto anche come ISIS[1] o semplicemente Stato Islamico), autoproclamatosi Califfato Islamico sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi, preoccupa a causa di potenziali ripercussioni destabilizzanti. Per vari motivi, la presenza del Califfato costituisce una minaccia non solo per i paesi limitrofi, ma anche per l’intera comunità internazionale.
2.1. Premesse e radici della crisi
La crisi irachena ha assunto prepotentemente le sembianze di un conflitto settario tra i gruppi di fede islamica sunnita e sciita, una contrapposizione religiosa che affonda le proprie radici in un’epoca storica corrispondente al medioevo europeo.
Nell’Iraq moderno, uno dei pochi paesi in cui il gruppo sciita rappresenta la maggioranza della popolazione (si veda la Tabella 1), il dualismo queste due anime dell’Islam è stata la principale causa di violenza nel Paese. Venuto meno il controllo coloniale britannico, la popolazione sciita è stata vittima di varie persecuzioni, specialmente durante l’era del partito Ba’th e sotto il regime di Saddam Hussain.
L’intervento militare statunitense del 2003 e la conseguente deposizione del Raʾīs non hanno messo un freno alla rivalità interreligiosa. Anzi, la seconda guerra del Golfo, sconvolgendo la già precaria struttura politico-sociale preesistente, ha creato le condizioni nelle quali portare avanti la lotta armata inter-settaria. I governi che si sono alternati in seguito all’intervento americano hanno segnato la rivincita sciita ma, emarginando la minoranza sunnita, hanno rialimentato il “seme della discordia” creando le premesse per una rivolta armata.
Paesi a maggioranza sciita
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Paese
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Popolazione sciita (in %)
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Popolazione sciita
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Iran |
90 - 95 |
66 - 70 milioni |
Azerbaijan |
65 - 75 |
5 - 7 milioni |
Bahrein |
65 - 75 |
400 – 500 mila |
Iraq |
65 - 70 |
19 -22 milioni |
Tabella 1: Paesi a maggioranza sciita [fonte: Pew Research Centre, Mapping the Global Muslim Population, October 2009].
2.2. Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante
Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante può essere definito come un gruppo jihadista (prevalentemente sunnita) il cui obiettivo è la creazione di un Califfato sotto il quale ricondurre il mondo islamico sottoponendolo al potere del Califfo e alle leggi della Sharia.
L’ISIL si costituisce come ultima evoluzione di un movimento radicale le cui radici risalgono a un decennio fa: conosciuto in primis come Al-Qaeda In Iraq (AIQ) dal 2004, poi come Stato Islamico dell’Iraq (2006) e infine, dato il suo inserimento nella guerra civile siriana, Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (2013).
Pur trattandosi di un gruppo integralista, sarebbe errato ritenere l’ISIL parte della rete terroristica di al-Qaeda. Indubbi sono i legami tra Abu Musab al-Zarqawi (e fondatore dell’AIQ e precursore dell’ISIL) con la rete di Osama Bin Laden; tuttavia, le relazioni tra i due gruppi sarebbero crollate in seguito al rifiuto di al-Zarquawi di seguire Bin Laden e la sua politica di non condurre attacchi contro la popolazione di fede islamica[2]. Il 2013 costituì il punto di non ritorno: Abu Umar al-Baghdadi (leader dell’AQI) tentò di reclamare il controllo di al-Nusra, fronte islamico nato nel caos della guerra civile siriana. Il rifiuto del leader di al-Nusra (Abu Muhammad al-Jawlani) di riconoscere tale controllo diede il là ad attacchi dell’AQI contro i suoi memberi. Alla luce di tali elementi, si evince come un legame di collaborazione o subordinazione dell’ISIL rispetto ad al-Qaeda e al-Nusra sia, al momento, pressoché inesistente.
Ciò che costituisce la forza dell’ISIL sono il suo “materiale” umano e militare. L’ISIL può contare su oltre 10000 uomini che vanno a comporre una sorta di milizia “internazionale”: difatti, tra i ranghi dell’ISIL trovano posto gruppi tribali sunniti, ex elementi della Guardia Repubblicana di Saddam Hussain e seguaci provenienti da tutto il Medio Oriente. In termini di capacità militari, avendo una consistente storia operativa, le milizie dell’ISIL padroneggiano le tecniche della guerriglia e hanno i mezzi necessari per condurla[3]. Inoltre, il carattere di “missione spirituale” che ha assunto questa campagna, contribuisce a fare dell’ISIL una seria minaccia alla sicurezza regionale e globale.
2.3. L’offensiva dell’ISIL
Qui di seguito sono sinteticamente riproposte le fasi salienti che hanno portato alla nascita del Califfato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi:
- 30-31 dicembre 2013: scontri nella provincia di Anbar. L’esercito iracheno tenta di sedare una protesta sunnita nella capitale della provincia (Ramadi). Il 31 dicembre, l’ISIL occupa parte delle città di Ramadi e Falluja trovando appoggio in gruppi tribali oppositori del governo.
- gennaio-maggio 2014: l’ISIL affronta l’esercito. A fortune alterne, l’esercito iracheno e i miliziani dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante si contendono le città di Ramadi e Falluja che restano, a oggi, controllate dall’ISIL.
- giugno 2014: inizia l’offensiva dell’ISIL. L’offensiva ha inizio nella città di Samarra (5 giugno), per poi proseguire verso Mosul (abbandonata dall’esercito iracheno il 10 giugno) e Kirkuk (sfuggita all’occupazione dell’ISIL e controllata dai Peshmerga curdi dal 13 giugno). L’avanzata verso Baghdad continua con l’occupazione di aree strategiche (come la raffineria della città di Baiji) e luoghi “simbolici” (come Tikrit, città dove nacque Saddam Hussain). L’ISIL riesce a penetrare anche nella Provincia di Diyala. Nonostante i tentativi dell’esercito iracheno di costringere i miliziani ad abbandonare le proprie posizioni, l’ISIL è riuscita a mantenere il controllo di gran parte delle aree occupate.
- 29 giugno 2014: nascita del Califfato Islamico. Forte del controllo territoriale, l’ISIL proclama la nascita del Califfato a cavallo tra Siria (dalla provincia di Aleppo) e Iraq (alla provincia di Diyala) ponendolo sotto la guida del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi.
Figura 1: Aree controllate dall’ISIL (o ISIS) al 28 luglio 2014 [fonte: Jessica D. Lewis; Middle East Security Report 21 - July 2014, The Islamic State: a Counter-Strategy for a Counter-State; Institute for the Study of War; Washington DC].
2.4.Quale futuro per l’Iraq?
Con l’ISIL “alle porte” di Baghdad, sarebbe lecito attendersi una controffensiva dell’esercito: una battaglia per Bagdhad, per quanto incerto possa esserne l’esito, porterebbe senza dubbio a un bagno di sangue; inoltre, pesanti sarebbero le conseguenze politico-economiche qualora l’ISIL riuscisse ad allargare il proprio dominio sull’Iraq meridionale e sui suoi pozzi petroliferi.
Il coinvolgimento curdo resta un punto interrogativo. Ciò che spinge i Peshmerga è la protezione del proprio territorio e il desiderio di veder nascere uno stato indipendente. Al momento, a crisi in corso e con un possibile referendum per l’indipendenza all’orizzonte, non è chiaro che cosa ne sarà del Kurdistan iracheno.
Infine, sebbene sia difficile immaginare un’avanzata dell’ISIL oltre confine, il Califfato rappresenta una minaccia alla sicurezza anche per i paesi limitrofi. Il pericolo principale è rappresentato da possibili infiltrazioni di cellule legate all’ISIL: data la posizione geografica del Califfato, Libano, Giordania e Iran sarebbero obiettivi ideali. Non solo: qualora l’ISIL riuscisse a consolidare o a espandere la propria presenza territoriale, non possono escludersi velleità a danno della Turchia, o persino Arabia Saudita e Kuwait. La presenza di queste cellule verrebbe a costituire una minaccia di primo ordine nel caso in cui dovessero ricucirsi i rapporti tra l’ISIL al-Qaeda poiché il terrorismo islamico internazionale arriverebbe a beneficiare di nuovi avamposti nell’area mediorientale.
3. Iran – Teheran tra passato, presente e futuro con “l’incognita nucleare”
Il leitmotiv delle relazioni tra Iran e il mondo euro-atlantico dell’ultimo decennio è stato, senza dubbio, quello del programma nucleare voluto da Teheran. Nonostante la questione rimanga sostanzialmente aperta, la situazione odierna non è la stessa di dieci anni fa. Ecco com’è cambiata.
3.1. Le origini del piano nucleare
Il programma nucleare iraniano affonda le proprie radici negli anni ’50 del secolo scorso quando l’allora Scià Mohammad Reza Pahlavi tentò di avviare un processo di modernizzazione del Paese. Prima dello scoppio della Rivoluzione del 1979, il programma registrò suoi primi passi: dall’ingresso dell’Iran come stato membro dell’Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) nel 1958, passando per l’arrivo (dagli Stati Uniti) di un reattore adibito alla ricerca (1967), fino all’ingresso nel Trattato di Non Proliferazione Nucleare (1968) che pose lo sviluppo del programma al vaglio dell’AIEA. Prima del 1979, in un positivo clima di cooperazione internazionale, iniziarono persino i lavori di costruzione per il primo impianto, presso Bushehr, grazie all’aiuto degli Stati Uniti e agli investimenti di alcune imprese europee. La rivoluzione chiuse le porte dell’Iran al mondo, il regime di cooperazione internazionale si spense e stesso destino ebbe l’intero progetto che fu ripreso solamente durante gli anni ’80 in un clima di totale diffidenza della comunità internazionale (che cominciò a paventare un potenziale uso militare).
3.2. Le rivelazioni del 2002 e la presidenza di Mahmud Ahmadinejad (2005-2013)
Gli sviluppi sul nucleare iraniano passarono in sordina nel corso degli anni ’90 per poi tornare prepotentemente alla ribalta nel 2002, quando il gruppo dissidente del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana rivelò pubblicamente l’esistenza di due siti nucleari in costruzione presso Arak e Natanz (quest’ultimo destinato all’arricchimento d’uranio), la cui esistenza era stata tenuta nascosta da Teheran. Se gli accordi che l’Iran stipulò con Francia, Germania e Gran Bretagna nell’ottobre del 2003 parvero far rientrare la crisi, la presidenza di Mahmud Ahmadinejad diede una svolta in senso opposto.
Difatti, sotto la nuova presidenza riprese il programma di arricchimento d’uranio tanto che, l’11 aprile 2006, Ahmadinejad dichiarò in un comunicato televisivo che l’Iran aveva terminato con successo il la prima fase di arricchimento. Ciò che rese particolarmente teso il clima internazionale attorno all’Iran fu una politica internazionale verbalmente aggressiva nei confronti di Stati Uniti e Israele abbinata proprio al processo di arricchimento. Difatti, in molti ambienti politico-militari sia europei che americani, si era certi che l’Iran avesse intenzione di utilizzare l’uranio a scopi militari.
Il mancato rispetto della risoluzione 1696 delle Nazioni Unite (31 luglio 2006), che intimava l’immediata cessazione del processo di arricchimento, diede il via a quella che potrebbe essere vista come una sorta di “era delle sanzioni”. In tal clima, si rivelarono poco produttivi i tentativi del c.d. Gruppo dei P5+1[4] di spegnere la crisi.
Principali risoluzioni ONU contro l’Iran
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Risoluzione
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Provvedimenti |
1696 (2006) |
Impone la sospensione di ogni attività legata all’arricchimento ed elaborazione d’uranio. |
1737 (2006) |
Riafferma il contenuto della risoluzione precedente; intima la sospensione di ogni attività legata al trattamento delle acque pesanti; blocca l’approvvigionamento di ogni materiale o tecnologia nucleare; congela beni e risorse economiche d’individui e altri soggetti legati al programma nucleare. |
1747 (2007) |
Riafferma e rafforza le misure precedentemente adottate; impone un embargo sugli armamenti. |
1803 (2008) |
Riafferma e rafforza le misure precedentemente adottate; chiama gli stati a: impedire a specifici individui l’entrata o il passaggio sul loro territorio, vigilare sull’attività delle banche, ispezionare cargo provenienti da e diretti verso l’Iran. |
1929 (2010) |
Riafferma e rafforza le misure precedentemente adottate; impone la cessazione di ogni attività commerciale legata al programma nucleare, rafforza l’embargo sugli armamenti; impone la cessazione di ogni attività legata allo sviluppo della tecnologia balistica per armamenti nucleari. |
Tabella 2: Le principali risoluzioni varate dall’ONU contro l’Iran [fonti: risoluzioni n. 1696, 1737, 1747, 1803, 1929].
3.3. 2013: l’anno della svolta?
La concomitante esistenza della presidenza di Obama e di quella di Hassan Rouhani (entrato in carica dal 4 agosto 2013) sembra poter imprimere un nuovo corso storico alle relazioni politico-diplomatiche tra l’Iran e occidente. Dovendo fare i conti con i costi politico-economici dell’isolamento in cui l’Iran precipitò in seguito delle sanzioni, Rouhani si è detto pronto a negoziare seriamente il futuro del progetto nucleare. D’altra parte, la storica telefonata tra i due presidenti avvenuta il 27 settembre 2013 fece crescere un grande ottimismo tra gli addetti ai lavori, riunitisi poi al tavolo dei negoziati il 15-16 ottobre.
Nonostante alcuni rinvii, il 24 novembre 2013 i P5+1 hanno siglato un fondamentale ad interim. Tale accordo prevede una riduzione delle sanzioni a patto che l’Iran:
- interrompa l’arricchimento di uranio oltre il 5% e riduca le sue riserve che superino questa percentuale,
- apra i siti di Natanz e Fordow alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica,
- non porti avanti la costruzione dell’impianto di Arak[5].
Figura 2: Impianti nucleari in Iran [fonte: Hussain Hassan, Iranian Nuclear Sites, CRS Report for Congress, August 2007].
Nonostante alcune perplessità, particolarmente forti in Israele, l’implementazione dell’accordo è scattata il 20 gennaio 2014.
Sebbene un certo ottimismo di fondo non si sia mai spento, i fatti parlano chiaro: ad oggi manca ancora un accordo definitivo. Il termine ultimo entro il quale trovare una soluzione d’intesa permanente, avendo mancato la prima scadenza (20 luglio 2014), è stato fissato al 24 novembre: resta da vedere se questa seconda scadenza sarà rispettata. Eppure, raggiungere una definitiva stabilizzazione del problema costituirebbe un vantaggio per tutti: l’Iran necessita, appunto, di un allentamento delle sanzioni e di uscire dall’isolamento politico in cui s’è trovato relegato negli anni precedenti; l’economia globale potrebbe trarre giovamento da eventuali investimenti industriali che numerose imprese avrebbero interesse ad avviare in Iran; infine, “accantonare” il confronto politico sul nucleare iraniano permetterebbe di affrontare con maggior attenzione la minaccia rappresentata dall’ISIL nel vicino Iraq (dal momento che essa rappresenta un serio problema sia per i paesi occidentali sia per l’Iran).
Tabella 3: Siti nucleari iraniani [fonti: Hussain Hassan, Iranian Nuclear Sites, CRS Report for Congress, August 2007; International Atomic Energy Agency, Implementation of the NPT Safeguards Agreement in the Islamic Republic of Iran, 20 February 2014; www.nti.org].
Principali siti nucleari in Iran (al mese di Luglio 2014)
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Località |
Struttura |
Status |
Anarak |
Waste Storage Site |
Operativo |
Arak |
Iran Nuclear Research Reactor IR-40 |
In costruzione |
Bushehr |
Bushehr Nuclear Power Plant (BNPP) |
Operativo |
Darkhovin |
360 MW Nuclear Power Plant |
In pianificazione |
Esfahan |
Miniature Neutron Source Reactor (MNSR) Light Water Sub-Critical Reactor (LWSCR) Heavy Water Zero Power Reactor (HWZPR) Uranium Conversion Facility (UCF) Fuel Manufacturing Plant (FMP) Fuel Plate Fabrication Plant (FPFP) Enriched UO2 Powder Plant (EUPP) |
Operativo |
Fordow |
Fordow Fuel Enrichment Plant (FFEP) |
Operativo |
Karaj |
Karaj Waste Storage |
Operativo |
Lashkar Ab’ad |
Pilot Uranium Laser Enrichment Plant |
Potenzialmente operativo |
Natanz |
Fuel Enrichment Plant (FEP) Pilot Fuel Enrichment Plant (PFEP) |
Operativo |
Teheran |
Tehran Research Reactor (TRR) Production Facility (MIX Facility) Jabr Ibn Hayan Multipurpose Laboratories (JHL) |
Operativo |
4. Ucraina – Crisi militare e crisi politico-economica sul gas russo
La crisi in Ucraina si mostra come un complesso intreccio di relazioni politiche, economiche e militari che vede contrapposte Ucraina e Russia (“affiancata” dalle forze separatiste filorusse), con Unione Europea e Stati Uniti che spalleggiano, in quanto parti interessate, le istanze di Kiev. La crisi, scoppiata sul finire del 2013, può essere scomposta in tre fasi:
- 1° fase: le manifestazioni Euromaidan (novembre 2013 – febbraio 2014),
- 2° fase: la crisi in Crimea (febbraio – marzo 2014),
- 3° fase: la crisi in Ucraina orientale (marzo 2014 – in corso).
“Sullo sfondo”, ad accompagnare la crisi politico-militare, si erge la guerra politico-economica centrata sul tema dell’approvvigionamento del gas russo a Ucraina ed Europa.
4.1. Da Piazza Maidan alla crisi in Crimea
Gli scontri di Piazza Maidan cominciati il 21 novembre 2013, furono gli albori della complessa crisi che ha investito l’Ucraina negli ultimi mesi. Lo scoppio della protesta europeista, antigovernativa e “anti-Russia” fu causato dalla decisione del governo ucraino di riallacciare seri rapporti economici con Mosca invece di proseguire sul sentiero del dialogo politico-economico avviato con l’Unione Europea nel 1994 in seguito alla firma di un Accordo di Partenariato e Cooperazione (APC). Da Kiev, nel giro di poco tempo, la protesta si allargò al resto del paese. Il punto di non ritorno fu raggiunto tra il 18 e il 20 febbraio 2013 quando, durante le proteste nella capitale, dieci manifestanti persero la vita negli scontri. Il 21 febbraio 2014, il “ritorno di fiamma” causato da tali eventi, costrinse alla fuga l’allora presidente Viktor Yanukovich. La vittoria di Piazza Maidan sancì, però, l’inizio della crisi in Crimea.
Difatti, la nascita del nuovo governo non fu riconosciuta da gran parte della popolazione di origine russa che, in risposta, diede vita a una protesta di senso opposto. Epicentro di queste proteste è stata la ex Repubblica Autonoma di Crimea, dove circa il 60% della popolazione ha origine russa[6]. Dopo alcuni giorni di “latenza”, la crisi è esplosa agli inizi di marzo con l’intervento di gruppi paramilitari russi. Parallelamente, parte della popolazione si organizzò in “milizie di autodifesa” prendendo d’assalto edifici governativi mentre i reparti paramilitari cominciarono a occupare infrastrutture strategiche (come basi militari, porti e aeroporti). Gli scontri proseguirono fino al 15 marzo quando un referendum indetto dal Consiglio Supremo della Crimea, con il 96,77% dei voti favorevoli, sancì, de facto, il passaggio della Crimea dall’Ucraina alla Russia.
4.2. La crisi in Ucraina orientale
Dalla Crimea la crisi si è estesa all’Ucraina meridionale e orientale. Gli inizi di questa terza fase risalgono, a grandi linee, già ai primi di marzo quando una serie di proteste pro-Russia esplosero negli Oblast di Donetsk, Lugansk, Kharkiv e Odessa.
Le proteste divennero scontro armato. Le forze separatiste, supportate da gruppi paramilitari russi, avviarono la propria campagna contro il potere centrale, specialmente nella regione di Donbass (che aggrega gli Oblast di Donetsk e Lugansk). Bollando queste iniziative come atti di terrorismo, la risposta di Kiev si è articolata nel lancio di una serie di operazioni militari volte a riprendere i territori in mano alle forze pro-Mosca. Data la difficoltà di far fronte all’offensiva “su larga scala” dell’esercito ucraino e dopo aver perso le proprie posizioni nel nord e nel sud della regione, i combattimenti si sono intensificati a cavallo delle due provincie e nei pressi del confine russo (si veda figura sotto).
Figura 3: Situazione in Ucraina orientale (al 25 luglio 2014) [fonte: National Security and Defence Council of Ukraine].
Mentre le operazioni militari procedono, il mondo della politica registra due eventi fondamentali. In primis, il parlamento russo ha cancellato la risoluzione che prevedeva la possibilità di un intervento armato oltreconfine (25 giugno). Inoltre, l’Ucraina, assieme a Georgia e Moldavia, ha firmato un accordo di associazione con l’Unione Europea (27 giugno). Importanti sono le ripercussioni di tali accadimenti: il primo, pur non comportando la cancellazione delle sanzioni che Stati Uniti e UE continuano a infliggere alla Russia dall’inizio della crisi, ha il suo peso nel cercare di distendere le relazioni diplomatiche a cavallo dell’Ucraina[7]; mentre il secondo, in ottica futura, proietta l’Ucraina tra le braccia dell’Unione Europea riprendendo il percorso avviato nel lontano 1994.
Figura 4: Soggetti vicini a Vladimir Putin contro i quali USA e UE hanno emesso sanzioni [fonte: www.bbc.com].
4.3. La crisi ucraina e il gas russo
A complicare la risoluzione della crisi v’è il problema legato all’approvvigionamento del gas proveniente dalla Russia, un problema che lega a doppio filo Bruxelles, Kiev e Mosca.
Già a cavallo tra il 2005 e il 2006 una disputa sul prezzo del gas fornito da Gazprom fece crescere la tensione diplomatica tra Ucraina e Mosca coinvolgendo, per vie traverse, l’Unione Europea che proprio attraverso l’Ucraina riceve il proprio approvvigionamento. Dopo una temporanea “chiusura dei rubinetti”, causata dal mancato pagamento dei debiti contratti da Kiev nell’acquistare il gas russo, la crisi rientrò il 4 gennaio del 2006 con un accordo tra Gazprom e la compagnia ucraina Naftogaz. Una nuova crisi si abbatté sulle relazioni tra Russia, Ucraina e UE agli inizi del 2009 quando Gazprom decise di interrompere nuovamente l’erogazione del gas. Ancora una volta la crisi rientrò (18 gennaio 2009) in virtù di un accordo decennale tra le parti.
L’attuale crisi ucraina ha però rimesso tutto in discussione. Nel gestire la contrapposizione politica sul futuro dell’Ucraina Mosca ha, di fatto, il famoso “coltello dalla parte del manico”, potendo giocare sull’indispensabile fornitura di gas. Difatti, dal mese di giugno Gazprom ha interrotto il flusso di gas destinato all’Ucraina prevedendo una sua riattivazione a patto che Kiev saldi almeno parte del suo debito (1,5 su un totale di 4,5 miliardi di dollari[8])[9]. Nel frattempo, continua la realizzazione del nuovo gasdotto South Stream che, una volta attivo, collegherebbe l’Europa direttamente alla Russia attraverso il Mar Nero tagliando fuori l’Ucraina (si veda l’immagine sotto). Il progetto South Stream è di assoluta rilevanza per l’Unione Europea: da un lato permetterebbe a Bruxelles di fare progressi in termini “Sicurezza Energetica” aggirando i paesi che dell’Unione non sono membri ed evitando eventuali contenziosi che questi ultimi potrebbero avere con Mosca; eppure, dall’altro, mette l’Unione in chiara difficoltà in termini politici giacché questa né può evitare di condannare il coinvolgimento di Mosca nella crisi ucraina, né potrebbe fare a meno del suo gas.
Figura 5: Il progetto South Stream e altri gasdotti che collegano la Russia all’Europa [fonte: burnanenergyjournal.com].
4.4. La crisi ucraina nell’immediato futuro
Predire quale corso prenderanno gli eventi non è semplice. Tuttavia, è possibile identificare tre potenziali (e principali) sviluppi. In ordine di probabilità:
1) le forze separatiste saranno costrette a disperdersi e (almeno in parte) a passare il confine,
2) le forze separatiste si arrenderanno all’esercito e al governo ucraino,
3) qualora le forze separatiste dovessero arroccarsi in Donetsk o altre città, il governo potrebbe essere costretto a soddisfare (almeno in parte) le loro istanze al fine di evitare uno scontro che potrebbe causare perdite non sostenibili tra la popolazione civile.
Invece, potrebbe essere relativamente più semplice intuire qualcosa circa la “questione gas”. Sebbene non sia cambiato molto dal mese di giugno, le cose potrebbero evolversi nel corso dei prossimi mesi. Stando a quanto dichiarato nel mese scorso dalla Naftogaz, l’Ucraina dovrebbe essere in grado di rifornire di gas sia la propria popolazione sia i paesi Europei fino a dicembre[10]. Tuttavia, è lecito attendersi che la diplomazia internazionale raggiunga qualche risultato, dal momento che non trovare un accordo non farebbe altro che aggravare un clima politico già particolarmente teso.
5. Conclusioni
Questo articolo aveva l’obiettivo di fornire un’analisi sulle crisi Irachena, Iraniana ed Ucraina. Per quanto è stato detto in queste pagine, è chiaro che la comunità internazionale dovrà prestare molta attenzione circa i loro futuri sviluppi. Tra tutte, la crisi in Iraq è quella che può essere considerata come maggiormente insidiosa, perlomeno in termini di potenziali o imprevedibili impatti sulla sicurezza globale. La problematica legata al nucleare iraniano è forse quella che potrebbe essere risolta già a breve termine: gli sforzi prodotti dal Gruppo 5+1 potrebbero dare i propri frutti già nel prossimo autunno. Infine, la crisi in Ucraina: la sua complessità è data dalla moltitudine d’interessi in gioco e, siccome non si tratta esclusivamente di un problema legato alla sicurezza interna del Paese coinvolgendo fattori di carattere sia politico sia economico, potrebbe essere necessario un certo tempo prima che le parti coinvolte riescano a trovare un accordo definitivo.
[1] L’acronimo ISIS, che in inglese sta per “Islamic State of Iraq and al-Sham” che, tradotto, significa “Stato Islamico dell'Iraq e della Grande Siria”, o semplicemente “Stato Islamico dell'Iraq e della Siria”.
[2] L’obiettivo di tale politica era di evitare la perdita di consensi e di legittimità nel mondo islamico.
[3] Combattendo in Siria e in Iraq, l’ISIL è entrato in possesso di un consistente armamentario (costituito, tra le altre cose, da carrarmati, artiglieria leggera e pesante, mezzi da trasporto etc.) in buona parte sottratto alle forze di sicurezza irachene, all’esercito siriano e ad altre forze ribelli operanti in Siria.
[4] Il Gruppo era – ed è tuttora – composto dai cinque membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina) più la Germania; le sue riunioni sono cominciate nel 2006 per trovare una soluzione al problema rappresentato dal progetto nucleare iraniano.
[5] Quanto qui riportato costituisce una sintesi, nelle sue parti salienti, dell’intero accordo. Fonte: Joint Plan of Action; Geneva, 24 November 2013.
[6] Fonte: censimento 2001 (http://2001.ukrcensus.gov.ua/eng/results/general/nationality/Crimea).
[7] Va comunque specificato che, in seguito a eventi recenti (ad esempio l’abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines) il clima politico a ricominciato a registrare picchi di tensione tra le parti coinvolte.
[8] Fonte: http://www.bbc.com/news/world-europe-27862849.
[9] La disputa verte non solo sul pagamento delle quote arretrate, ma anche sui prezzi che la Russia chiede per l’anno 2015: Mosca vuole applicare una tariffa che prevede il pagamento di 485 dollari al metro cubo mentre l’Ucraina chiede che i prezzi siamo mantenuti a livelli pre-crisi, vale a dire 280 dollari a metro cubo [fonte: Euronews.com].
[10] Va specificato, comunque, che, in termini di approvvigionamento, l’Unione potrebbe continuare a ricevere le proprie provvigioni di gas anche qualora l’Ucraina non continuasse a riceverne. Ciononostante, la Russia potrebbe decidere di “chiudere i rubinetti” anche nei confronti di Bruxelles ed è per questo che l’Unione è costretta condurre un “gioco” estremamente prudente.
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